La nonna della Fabbrica dei Sogni

La mia presenza alla Fabbrica dei Sogni è datata  2001. Ho cominciato con una certa ritrosia: essendo insegnante, non ero entusiasta di passare anche il pomeriggio a fare le stesse cose che facevo al mattino.

Ben presto, però, mi sono accorta che era tutto un altro lavoro rispetto a quello che facevo a scuola: affiancare nello studio questi ragazzi era gratificante, perché avevano voglia di imparare e mostravano rispetto e gratitudine verso l’adulto che si dedicava loro. Questo mi ha portato a cercare modalità di comunicazione più immediate attraverso la gestualità, il disegno, lo schema. Ho imparato a semplificare i messaggi contenuti nei libri di testo per rimuovere ostacoli che impediscono l’accesso alla conoscenza e, di settimana in settimana, ho constatato progressi nell’apprendimento dei ragazzi.

Dopo qualche tempo, qualcuno di loro ha cominciato a raccontare frammenti della propria storia, partendo da ciò che in quel momento generava sofferenza: poteva essere il disaccordo con un genitore sulle proprie scelte di vita, o la nostalgia del mondo lasciato, oppure la difficoltà di ricostruire il rapporto con un genitore quasi sconosciuto con cui aveva vissuto solo nella prima infanzia, o ancora il disagio provocato dai compagni di scuola che lo emarginavano.

Ad un certo punto qualcuno dei ragazzi ha cominciato a chiamarmi “nonna”: sulle prime sono rimasta perplessa (in quel periodo mi tingevo i capelli…), poi ho compreso che con quel titolo i ragazzi evocavano una figura cara, lasciata in Africa, che li aveva accuditi nei lunghi anni di lontananza dei genitori. Sapere che i miei figli naturali avevano avuto la possibilità di crescere fra tante opportunità di apprendimento, di esercizio sportivo, di viaggi, di affetto da parte di tutta la famiglia mi creava il bisogno di regalare anche a questi “nipoti” acquisiti le stesse opportunità.

Ho cominciato a sciogliermi, ad essere più libera nel manifestare i miei sentimenti, a lasciarmi abbracciare, ad accogliere il loro saluto affettuoso come una ricchezza che aumentava di giorno in giorno, comprendendo che molti giovani non sanno chiamare per nome le loro emozioni, perché non hanno qualcuno che sia attento a quello che stanno vivendo. Le esperienze vissute nel pomeriggio a San Giorgio animavano le conversazioni serali in famiglia: tanto che i vari Youssef, Habiba, Natalya, Mohammed diventavano gli invisibili commensali della nostra tavola. Il nostro desiderio giovanile di trasferirci un giorno in Africa andava prendendo forma: l’Africa era venuta a stare da noi.

Quando mi sono ritrovata improvvisamente vedova, l’aver intrapreso questo impegno, condiviso con mio marito, mi ha permesso di ritrovare lo scopo e la serenità del vivere, dopo un periodo iniziale di disorientamento. Mi sono sentita ancora utile nella mia professionalità e, come persona, più forte e capace di dar voce alle difficoltà e alle necessità di questi ragazzi secondo le mie capacità.

Il modello consumistico prospettato dalla nostra società e l’attuale svalutazione del valore della dignità della persona possono indurre i ragazzi a buttarsi via, soprattutto coloro che hanno scarse possibilità economiche o che sperimentano insuccessi scolastici. Mi sono accorta che molti ragazzi sono confusi riguardo alla propria identità culturale, attratti dal modello di vita occidentale, ma trattenuti da quello del proprio Paese d’origine, sostenuto dai genitori.

Io credo sia importante suscitare in ciascuno quelle domande esistenziali al fine che l’individuo si sviluppi in modo completo ed eviti di essere fagocitato dal nostro sistema omologante, secondo un’idea di integrazione che non condivido. La mia fede si manifesta anche in questo: credo profondamente nel valore della persona, di qualsiasi persona, e le differenze antropologiche fisiche o comportamentali mi appaiono come abiti che velano l’uguale umanità che è in ciascuno.

                                                                                                                                             Maria